Il rinnovato interesse verso gli archivi del passato
Se durante il Triennio democratico le autorità milanesi avevano prestato scarsa attenzione alla documentazione del passato, lasciando l’Archivio nazionale in balia di Peroni e dei suoi collaboratori, durante la seconda Cisalpina, e ancor di più dopo la nascita della Repubblica italiana, la sensibilità mutò profondamente. Al mai sopito interesse verso le scritture di più recente produzione, utile strumento pratico-amministrativo e politico da mettere a disposizione delle autorità governative, si aggiunse una rinnovata sensibilità per la documentazione più antica, testimonianza di una storia che non si voleva più cancellare o dimenticare, ma di cui la Repubblica doveva rappresentare il risultato ultimo.
Ad alimentare quest’interesse per lo studio della storia patria contribuirono sia il vicepresidente della Repubblica Francesco Melzi, sia i due uomini cui furono affidate le sorti degli archivi nazionali, Luigi Bossi e Michele Daverio. Al primo fu attribuita l’inedita carica di prefetto generale degli archivi e delle biblioteche nazionali (dal 1805 solo archivi) (17), mentre il secondo fu posto alla testa dell’Archivio nazionale, con l’allontanamento di Luca Peroni, che si sarebbe ricostruito una carriera come archivista del Ministero dell’interno.
Si deve proprio al terzetto Melzi, Bossi e Daverio l’idea di creare a Milano una grande collezione di pergamene provenienti da tutte le città della Repubblica, che nelle loro intenzioni avrebbe «facilmente» potuto «sorpassare in celebrità tutti i grandi depositi diplomatici conosciuti» (20). L’Archivio diplomatico, si auspicavano i tre, si sarebbe in tal modo trasformato in un simbolo della raggiunta unità nazionale di territori che per secoli erano rimasti divisi e in lotta tra loro, suggellando al tempo stesso il ruolo di Milano come capitale del nuovo Stato.
Un progetto accantonato in attesa di tempi migliori
Un concetto, quello espresso per le scritture più antiche, valido anche per la documentazione di natura governativa ancora utile sul piano amministrativo. Era a Milano che dovevano confluire gli archivi governativi di tutti i territori entrati a far parte della Repubblica, come Mantova, Massa e Carrara e Modena, così come tutta la documentazione prodotta dalle diverse municipalità che all’arrivo dei francesi avevano assunto poteri di governo, sotto diverse forme e per periodi più o meno duraturi.
Due progetti concentrativi, quello del Diplomatico e quello delle carte governative, che si dovettero da subito scontrare con un problema pratico: l’Archivio di San Fedele, originariamente concepito per ospitare esclusivamente le scritture della Lombardia austriaca, non era abbastanza capiente (19). Gli archivi erano certamente tornati a suscitare l’interesse del Governo guidato da Melzi, ma le priorità rimanevano altre nel momento in cui la neonata Repubblica era ancora in fase di assestamento e all’orizzonte si addensavano le nubi minacciose di un nuovo conflitto europeo. Per il momento entrambe le pratiche furono “archiviate”, con buona pace di Bossi e Daverio.
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17. Un prefetto per gli archivi
Milano, 6 brumaio anno IX
[28 ottobre 1800]
ASMi, Atti di governo, Uffici e tribunali regi, Parte moderna, b. 327
Istruzioni che si comunicano per ora al prefetto generale degli archivi e delle biblioteche nazionali, allegate a lettera dell’ispettore generale per gli affari interni ed esteri del Comitato governativo Francesco Pancaldi a Luigi Bossi, nominato alla carica di prefetto.
Durante la seconda Repubblica cisalpina, e ancor più dopo la nascita della Repubblica italiana, l’interesse delle autorità governative milanesi verso la buona tenuta degli archivi aumentò rispetto al Triennio democratico, come dimostra l’istituzione di un’apposita Prefettura generale incaricata di vigilare sul settore.
Le puntuali Istruzioni inviate al prefetto Bossi nell’ottobre 1800 gli conferivano, almeno sulla carta, ampi poteri di controllo su una vasta gamma di archivi. Tra le altre incombenze, egli ricevette anche l’ordine di far custodire «colla maggior circospezione» quei «monumenti molto antichi, come papiri, codici, pergamene ed altri simili oggetti» (art. 27).
Si trattava del segno evidente che, dopo il disprezzo verso le antiche scritture nutrito dagli organi governativi della prima Repubblica cisalpina, i tempi stavano cambiando e la documentazione iniziava a essere tenuta in considerazione non solo per il suo immediato valore amministrativo, giuridico o politico, ma anche per il significato storico di cui era rivestita.
19. Spazio all’Archivio
Senza luogo, 25 frimale anno X
[16 dicembre 1801] [data di registrazione]
ASMi, Genio civile, b. 4763
Planimetria del piano terreno del complesso di San Fedele con l’indicazione dei possibili locali da assegnare all’Archivio nazionale.
La planimetria mostra gli ambienti già occupati dall’Archivio, colorati di giallo, e quelli che si ipotizzava di assegnare all’istituto, indicati con il colore rosso.
Malgrado la stringente necessità di assegnare nuovi spazi all’Archivio nazionale per accogliere le scritture relative ai territori entrati a far parte della Repubblica, la pratica si trascinò stancamente per decenni, rendendo impossibile la concentrazione di tutti i fondi destinati all’Archivio di San Fedele sia in età napoleonica sia durante la Restaurazione.
È significativo il fatto che il progetto, elaborato nel 1801, si conserva in una pratica del giugno 1861 relativa alla richiesta di nuovi locali da destinare al personale dell’Archivio avanzata dal direttore dell’epoca, Luigi Osio, al Genio civile di Milano. A sessant’anni dalle prime richieste, benché nel frattempo diversi lavori di ampliamento fossero già stati effettuati, la carenza di spazio continuava a essere il principale problema dell’istituto!
20. La genesi di un progetto politico e scientifico
Milano, 18 settembre 1803
ASMi, Atti di governo, Uffici e tribunali regi, Parte moderna, b. 329
Progetto del prefetto degli archivi Luigi Bossi per l’istituzione di un Archivio diplomatico a Milano indirizzato al vicepresidente della Repubblica italiana Francesco Melzi, allegato a rapporto dello stesso Bossi al ministro dell’Interno.
Invitato a compilare un rapporto per la «formazione» di un grande Archivio diplomatico destinato a far confluire a Milano le pergamene più antiche rinvenute in decine di archivi disseminati su tutto il territorio della Repubblica, Bossi illustrò il proprio piano di lavoro al vicepresidente Melzi, lodandone lo «zelo» sempre dimostrato «pel vantaggio della Nazione», un interesse al quale anche la nuova intrapresa avrebbe potuto contribuire.
A partire dai documenti già individuati negli archivi degli enti religiosi soppressi nel Milanese in quel torno di anni, il prefetto suggerì di concentrare l’attenzione sul materiale pergamenaceo rinvenuto in altri comuni, come Bergamo, Brescia, Nonantola, Pavia, Ravenna, Rimini, solo per citarne alcuni, di cui già si avevano notizie certe grazie a una rete di eruditi locali impegnati da tempo a rinvenire e studiare quegli antichi «monumenti».
Già con queste prime collezioni, sottolineava Bossi, l’Archivio nazionale avrebbe potuto accogliere un patrimonio documentario di primo livello, da destinare allo studio della storia patria:
«Intendendosi rettamente in questo caso il nome di Diplomatico, ed applicandosi con una maggiore latitudine a tutti i diplomi antichi, (...) il paese nostro fortunatamente presenta una messe così copiosa, che agevolmente può formarsi un Archivio diplomatico dei più famosi dell’Europa».