Testo del saggio
Dopo aver dato vita ad un’ampia e labirintica tradizione manoscritta, le poesie di Quevedo furono stampate per la prima volta tre anni dopo la morte del loro autore. Nel 1648 vedeva la luce a Madrid, nella tipografia di Diego Diaz de la Carrera, El Parnasso español, monte en dos cumbres dividido, con las nueve musas castellanas. Nonostante quanto annunciato nel titolo, il libro contiene solamente le poesie corrispondenti alle muse Clio, Polimnia, Melpomene, Erato, Tersicore e Talia, ordinate tematicamente secondo gli attributi e le funzioni, più o meno imprecisate, che la tradizione attribuiva a ognuna di esse. Così, ad esempio, la terza parte inizia con l’iscrizione “Melpómene, musa III. Canta ahora poesías fúnebres [...]”. L’edizione fu preparata per la stampa da uno dei più fedeli amici di Quevedo, José González de Salas, e la critica tende a pensare che sia la struttura del libro, sia lo stesso testo delle poesie, obbediscano all’ultima volontà dell’autore. Un discorso diverso va fatto per le epigrafi, che l’editore rivendica come proprie, e, ovviamente, per i commenti che González de Salas aggiunge ai componimenti.
Per l’edizione di cui ora mi occupo, Alfonso Rey osserva che il testo madrileno del 1650 “no supone, en lo que atañe a Polimnia, ninguna novedad respecto a la edición principe, de la cual deriva”. Non è certo se questa conclusione possa essere estesa alle cinque muse restanti, sebbene non ci siano motivi per supporre il contrario. Anche se testualmente poco autorevole, l’edizione del 1650 è tuttavia fondamentale dal punto di vista della trasmissione a stampa, dal momento che, come dimostra Rey per Polimnia, quasi tutte le edizioni del XVII secolo discendono da questa e non dalla princeps del 1648. Quasi tutte, in effetti, attribuiscono la revisione del testo al burlesco Amuso Cultifragio, accademico di Lovanio, che è nominato per la prima volta nel 1650, e sopprimono le stesse epigrafi e i commenti, che mancano già in questa edizione.
Per quanto la struttura scelta da González de Salas (e probabilmente dallo stesso Quevedo) non sia assolutamente frequente nei libri poetici spagnoli anteriori al 1650, non si può nemmeno dire che l’idea sia senza precedenti. Già nel 1588 Juan de la Cueva pubblica a Sevilla il suo Coro febeo de romances historiales, che esce diviso in dieci libri. Di questi, il primo corrisponde ad Apollo e gli altri nove alle muse, disposte in un ordine diverso rispetto a quello che hanno nel Parnaso español. In pratica, l’ordinamento tematico è molto debole, ma c’è la volontà esplicita di ordinare le composizioni secondo il loro contenuto e in funzione degli attributi delle muse. Ogni libro è preceduto da un romance, dedicato alla musa corrispondente, in cui si riassumono il tema, o il tono, di ciò che seguirà. Il libro VII, per esempio, si apre con un “Romance a la musa Erato”, che inizia: “Si no desdeñas mi acento, / sagrada y febea Erato, / verás cosas amorosas / celebradas en mi canto”. E nel libro VIII il romance alla musa Polimnia dice: “A cantar sucessos varios / un febeo furor me lleva”, in cui è chiara la volontà di mettere in relazione il contenuto, ovvero gli “svariati accadimenti” (“sucesos varios”), con il nome della musa, “la de los muchos himnos”. Altre volte, tuttavia, il poeta riconosce il proprio insuccesso. E quanto avviene nei versi proemiali della musa Talia, protettrice della commedia, che, come ammette lo stesso Juan de la Cueva, poco o niente ha a che vedere con i suoi romances storici.
Altre opere sono più coerenti con lo schema prescelto. Nel 1631, Francisco Sebastián Medrano pubblica a Milano il primo volume dei suoi Favores de las musas, una raccolta di poesie e opere teatrali, compilate e organizzate da Castillo Solórzano e dedicate al cardinale Teodoro Trivulzio. Il volume è diviso in cinque libri, che corrispondono il primo all’epica e alla musa Calliope; il secondo all’elegia e alla musa Euterpe; il terzo alla tragedia e a Melpomene; il quarto al burlesco e a Erato; il quinto al comico e a Talia. I libri tre e cinque, ovvero quelli della tragedia e della commedia, comprendono solo testi drammatici; il primo aggiunge a un’opera teatrale diverse composizioni poetiche; il secondo e il quarto, invece, contengono solo poesie. Alla fine del volume se ne promette un secondo, dedicato alle restanti muse, e organizzato sulla stessa architettura.
Nell’adozione della divisione in muse, non mancano né indecisioni né soluzioni di compromesso. Nel 1649, solo un anno dopo il Parnaso español, Francisco Manuel de Melo pubblica Las tres musas del Melodino. Come c’era da aspettarsi dal titolo, il volume si divide in tre parti, “El harpa de Melpómene”, “La citara de Erato” e “La tiorba de Polimnia”. Ma non c’è neppure teoricamente la volontà di adattare il tema delle poesie a ognuno dei tre personaggi. L’organizzazione di Melo rispetta molto la tradizione per quanto riguarda le forme metriche, così che sotto Melpomene vengono raccolti tutti i sonetti; successivamente, sotto Erato, tutti i romances; e, infine, sotto Polimnia, altre forme metriche, dalla terza rima alle decime di ottosillabi. Non si può escludere che questa distribuzione sia stata calcolata scrupolosamente: a Melpomene, musa della tragedia, corrisponderebbe una forma metrica di maggior prestigio; a Erato, collegata con la commedia, il popolare romance; a Polimnia, una varietà di forme (come una varietà di vicende in Juan de la Cueva). Il testo del Parnaso español dà corpo, quindi, a un’organizzazione del macrotesto che aveva già conosciuto alcuni tentativi più o meno fortunati e coerenti.
La coesione dell’insieme è rafforzata, a partire dalla princeps del 1648, da una serie di incisioni che si ripetono da un’edizione all’altra, e sono presenti anche in questa del 1650. La prima, che praticamente apre il volume, rappresenta Apollo, accompagnato dalle nove muse, che incorona Quevedo. A questa incisione iniziale se ne aggiungono altre sei che segnano ognuna l’inizio delle varie parti dell’opera, e rappresentano la musa corrispondente. Le lastre sono opera degli artisti fiamminghi Juan de Noort e Herman Paneels, che lavorarono su disegni di Alonso Cano, oggi perduti. E difficile stabilire la fonte iconografica precisa di queste illustrazioni, anche se i grandi trattati rinascimentali italiani, e soprattutto l’Iconologia di Cesare Ripa, servono come base informativa per molti dettagli. Nonostante questo, Polimnia e, soprattutto, Clio difficilmente si possono spiegare a partire da queste descrizioni di Ripa; Melpomene, Erato, Terpsicore e Talia sono invece molto più vicine al testo italiano, anche se non mancano di suscitare alcune perplessità. Secondo Ripa, ad esempio, Melpomene deve reggere con la mano sinistra scettri e corone, e con la destra un pugnale sguainato. In questo modo si vogliono rappresentare le incerte vicende di felicità e infelicità della vita dei potenti, tema della tragedia. Ai piedi del personaggio, sparsi a terra, ci sono altri scettri e corone. Nel testo di Quevedo, la musa regge con la sinistra uno scettro e qualcosa che, nell’interpretazione che considero più probabile, sembra una spada. Così Alonso Cano avrebbe mantenuto un simbolo di potere e avrebbe rimpiazzato la corona con un altro, la spada. Ma alla luce dell’Iconologia, forse va visto nella spada (o daga?) uno strumento di minaccia contro i potenti, vale a dire, l’equivalente del pugnale sguainato della musa di Ripa. Ciò che invece è rispettato scrupolosamente nelle incisioni del Parnaso español sono le corone e gli scettri sparsi a terra.
Ad ogni modo, come ha dimostrato Julio Vélez-Sainz, le illustrazioni del libro servono ad avvalorare l’ingresso di Quevedo nel canone poetico spagnolo. Attraverso un procedimento simile, alcuni poeti del Siglo de Oro avrebbero ricevuto il riconoscimento un anno dopo, durante l’entrata a Madrid di Marianna d’Asburgo (15 novembre del 1649). Di fronte alla Torrecilla del Prado sono rappresentate le due cime del Monte Parnaso, con muse vive e le statue dei più insigni poeti spagnoli di tutte le epoche. Accanto a Seneca, Lucano, Marziale e Juan de Mena, figuravano Garcilaso, Camoens, Lope de Vega, Góngora e lo stesso Quevedo, il più giovane di tutti, l’ultimo consacrato nel Parnaso spagnolo, solo quattro anni dopo la sua morte. Non a caso, sembra probabile che Alonso Cano sia intervenuto nella preparazione delle decorazioni.
Álvaro Alonso de Miguel
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: H. E. WETHEY, Alonso Cano’s Drawings, “Art Bulletin”, XXXIV (1952), pp. 217-234; J. M0LL, Les éditions de Quevedo dans la donation Olagüe à la Bibliothèque de la Casa de Velázquez, “Mélanges de la Casa de Velázquez”, XVI (1980), pp. 457-494; R. LÒPEZ TORRIJOS, La mitologia en la pintura española del Siglo de Oro, Madrid, Cátedra, 19952; F. DE QUEVEDO, Poesia moral (Polimnia), ed. di Alfonso Rey, Madrid, Támesis, 19982; Alonso Cano: espiritualidad y modernidad artística, Sevilla, Junta de Andalucía-Consejeria de Cultura, 2001 (catalogo della mostra); J. VÉLEZ-SÁINZ, ElParnaso español: canon, mecenazgo y propaganda en la poesía del Siglo de Oro, Madrid, Visor, 2006.
ILLUSTRAZIONI (dall’opera 28 del catalogo):
8. Ill. al r. della c. successiva al frontespizio.
9. Ill. di p. 100.
10. Ill. di p. 123.