2 Un programma iconografico di formazione del principe

Le Empresas di Saavedra Fajardo

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Testo del saggio

Anche se la Spagna non fu all’avanguardia nella produ­zione di trattati dedicati alla teoria dell’emblema e dell’im­presa — la loro elaborazione fu notoriamente appannaggio dell’Italia cinquecentesca — la letteratura delle immagini simboliche sperimentò anche in questo paese una vasta fio­ritura a partire dalla metà del XVI secolo. Fissare nella men­te un insegnamento facendo appello a immagini, è la prima funzione dell’emblema in area spagnola: a tale scopo l’icono­grafia diviene più concreta, illustrativa, anziché vagamen­te allusiva. In quanto spetta­colo didattico, le due compo­nenti, iconica e verbale, si pongono al servizio della poli­tica, della morale e della propaganda religiosa. Le “imprese — scrive Juan Francisco de Villava — che tanto successo avevano riscosso presso italiani e francesi, dove­vano ora servire a muovere la cristiana pietà” (Prologo al Lettore delle Empresas espirituales y morales, 1613). La spiri­tualizzazione del mezzo comporta il recupero di motivi profani ora investiti di significati cristiani, come ben dimostrano le numerose Imprese morali apparse a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. La denominazione, utilizzata per la prima volta da Juan de Borja, figlio del Duca di Gandía (il futuro San Francesco Borgia), nella sua raccolta originale di imprese in lingua spagnola (Praga, 1581), è in seguito ripresa nel­le collezioni composte da Juan de Horozco y Covarrubias (Segovia, 1589), Hernando de Soto (Madrid, 1599) e Sebastián de Covarrubias (Madrid, 1610).

Nel primo Seicento fino al tornante della metà del secolo, con l’acuirsi del clima di disin­ganno, la letteratura emblema­tica spagnola si apre a nuovi temi quali l’educazione civile e politica, diventando letteratura del buon governo. Il segno sensibile stimola l’intelletto, dando corpo ad una comuni­cazione visivo-verbale di gran­de efficacia, di cui danno pie­na testimonianza le opere di Saavedra Fajardo (1640), di Andrés Mendo (1642), di Juan de Solórzano Pereira (1651) e di Alejandro Luzón de Millares (1664).

L’Idea de un príncipe político christiano representada en cien empresas, pubblicata per la pri­ma volta a Monaco nel 1640 nella stamperia di Nicolao Enrico, con le incisioni del tedesco Johannes Sadeler II, è un libro archivio, patrimonio di memoria testuale e iconica, destinato all’educazione di Baltasar Carlos, il figlio undi­cenne di Filippo IV e di Elisabetta di Borbone.

All’epoca della sua redazione l’autore, Diego Saavedra Fajardo (Algezares, 1584-Madrid, 1648), stimato funzio­nario imperiale e diplomatico di professione, aveva all’at­tivo 34 anni di esperienza — presso la corte papale (1610-1633) e poi a Vienna e in altre città dell’Europa centrale-, nel corso dei quali si era prodigato per salvaguardare la supremazia spagnola sul continente e per difendere la reli­gione cattolica.

Consapevole della difficoltà del proprio compito, Fajardo mette a punto un pre­ciso compendio dell’arte di regnare, appellandosi ai due sensi, vista e udito, che più potevano catturare l’attenzione del giovanissimo destinatario: attraverso un linguaggio visivo, in cui parole e immagini si completano vicendevolmente, egli si prefigge di tesaurizzare, di fissare nella memoria i momenti istituzionalmente più decisivi dell’iter formativo del futuro regnante, confidando nel fatto che la sua capacità di ascolto — la lettura del libro doveva essere affidata ad un educatore — sarebbe stata garantita dalla forza persuasiva delle stesse illustrazioni. Ed è così che nell’Idea le più efficaci tecniche messe in campo nei secoli dall’antica ars memorativa si combinano con i raffinati procedimenti della rinascimentale ars impresistica, al fine di fornire all’erede al trono di Spagna un perfetto addestramento all’esercizio dell’officium regale.

Se l’editio princeps del 1640 recava vistosamente le tracce del frenetico lavorio diploma­tico di quegli anni — le 100 imprese erano legate da un mero ordo fortuitus, al punto che l’autore stesso cercava di porvi rimedio organizzando l’indice come un vademecum, una sintesi del contenuto di ogni impresa —, a partire dalla seconda edizione, apparsa a Milano il 20 aprile 1642, il contenuto, esposto nel “Sumario de la obra”, viene suddiviso, invece, in Otto sezioni, ognuna delle quali si configura come una sorta di repositorio di norme comportamentali sulle quali fondare il costume di vita dell’infante. In 101 imprese (una in più rispetto alla prima edizione), a cui ne vanno aggiunte una preliminare e un’altra conclusiva sul destino di morte che tutti accomuna, lo scrittore mette a punto un percorso educativo che abbracciava l’intera scena esistenziale del Principe: dall’istruzione sulla condotta da tenersi con i sudditi e con i ministri, nella gestione del potere e nel far fronte alle evenienze anche sfavorevoli, ai ponderati con­sigli sulla preparazione all’abbandono dei beni e delle glo­rie mondane.

In risposta al perturbamento machiavellico, che aveva aperto la strada a un affrancamento della politica dalla teologia, la dottrina del principe cristiano e della vera ragion di Stato — come è chiarito nella dedica a Baltasar Carlos — si articola in una casistica dell’agire politico fondata sugli ammaestramenti del passato, in particolare sugli esempi forniti dagli stessi illustri predecessori del principe (Purpura iuxta purpuram è il lemma dell’impresa 16), nei confronti dei quali l’autore si ripromette di non attivare alcuna censura preventiva, riportando pregi e virtù di ciascheduno, in modo tale che il futuro regnante apprenda a governare con discernimento la nave dello Stato. Erudito ma non pedante, Saavedra utilizza un linguaggio chiaro, essenziale, conciso (“he procurado que el estilo sea levantado sin afectación, y breve sin oscuridad [...] porque, en lo que se escribe a los principes, ni ha de haber cláusula ociosa ni palabra sobrada”, precisa nell’ invio al lettore), grazie al quale il docere si coniuga profittevolmente con il delectare. Lungi dal voler gareggiare con l’enigmaticità dei geroglifici e con le artificiose costruzioni italiane, lo scrittore privilegia i motti brevi (la maggioranza sono di due o tre parole), quasi sempre una sentenza di autore classico o moderno, espressa in lingua latina: solo tredici volte fa uso del castigliano ed una dell’italiano. Per quel che riguarda, invece, le figure, da lui denominate — così come aveva insegnato il comasco Paolo Giovio.   — ‘corpo’dell’impresa, ricerca l’originalità disdegnando le immagini già note. In genere la res picta rappresenta motivi reali o verosimili, lasciando poco spazio agli elementi fantastici o favolosi. Frequenti sono le raffigurazioni di animali, evocati in quanto simbolo di determinate qualità, o di fenomeni naturali o astronomici. Quasi del tutto assenti, così come richiedeva la tradizione, sono, invece, le figure antropomorfe, ad eccezione di alcune illustrazioni che riproducono parti del corpo umano (braccia, mani, torsi). Ma è soprattutto la declaratio a costituire la parte fondamentale nelle imprese di Saavedra Fajardo. Ribattezzata dall’autore “discurso”, di estensione variabile (dalle 640 parole dell’empresa 77 alle 6.261 dell’empresa 50), è il luogo deputato all’appalesarsi di una imago regis tesa ad annullare ogni differenza tra l’archetipo (il mito regale) e l’individuo di carne ed ossa.

Nella sua precettistica pedagogica Fajardo privilegia la princeps Christianus, in quanto, come precisa nell’impresa 33, egli è “lo specchio in cui il mondo si riguarda”. Non a caso il motto — Fallax bonum, ‘Bene fallace” (impresa 20) — metteva in guardia circa le fatiche del ruolo, efficacemente simboleggiate nella corona di spine della pictura, mentre, a sua volta, il testo esplicativo illustrava, con esempi per lo più biblici o tratti dalla storia — repertorio per antonomasia di specchi e di icone edificanti — l’onere di reggere lo Stato, indicando nel contempo gli strumenti con cui tenere a freno “il puledro del potere”, ovvero giustizia, coraggio e prudenza. Il tema ritorna prepotentemente anche nell’impresa 43, una delle più famose dell’intera raccolta, nella cui pictura campeggia la pelle del leone nemeo, emble  ma del coraggio di Eracle, con il capo della belva cinto di serpenti. Rifacendosi alla celebre massima di Lisandro, generale spartano le cui gesta sono state tramandate dalle Vite di Plutarco, secondo la quale “Laddove la pelle del leone non è sufficiente, bisogna indossare la pelliccia del­la volpe”, Saavedra Fajardo affronta una delle questioni dibattute con più virulenza nell’Europa del tempo, vale a dire in che misura simulazione e inganno siano giustifica­ti in vista d’un fine che sia lecito. In aperta polemica con Machiavelli, che riprendeva la metafora del leone e della volpe nel capitolo XVIII del suo Principe (1513), adattan­dola alla figura di Cesare Borgia, archetipo del signore coraggioso e scaltro, l’autore dell’Idea, sulla scorta delle aspre critiche precedentemente mosse dal gesuita spagno­lo Pedro de Ribadeneyra e dall’italiano Giovanni Botero, respinge la liceità dell’inganno, mostrandosi contrario a una separazione di morale e politica. Nondimeno, come anticipava il motto (Ut sciat regnare), basato su un detto di Luigi XI di Francia (“nescit regnare, qui nescit dissimula­re”) e glossato ampiamente nel discorso di corredo, Fajardo reputa lecita, e persino prudenziale, la dissimula­zione dettata da motivi importanti e per il bene della comunità, soltanto però come antidoto, in specie nei con­fronti dei principi astuti e fraudolenti.

Abile diplomatico e fine statista, Saavedra Fajardo completa le sue riflessioni sulla moderna sovranità con alcune considerazioni sull’istituto del valimiento. Alla trattazione del fenomeno dei favoriti sono destinate le imprese 49 e 50, corredate da immagini capaci di tradurre visivamente il suo pensiero. La figura di una luna calante, inscritta nella circonferenza della sfera solare, sullo sfondo di un cielo stellato, agevola l’intelligenza dell’esplicazione in verbis offerta nell’impresa 49. Nel commento, infatti, l’autore entra nel vivo del dibattito sulla liceità di tale sistema di governo, sostenendolo in quanto strumento idoneo per dirigere un apparato statale sempre più complesso, a condizione, però, che l’autorità regia non subisse alcuna deminutio. Il ministro virtuoso e disinteressato — al pari della luna che non offusca la luce solare — dovrà, pertanto, guardarsi dal tiranneggiare la volontà del monarca, limitandosi al controllo delle carte e al disbrigo delle incombenze più gravose. Similmente, nell’impresa 50, un monte, sulla cui cima si addensano i fulmini di Giove — Iovi et fulmini recita il motto —, è la pictura prescelta per simboleggiare sia le innumerevoli difficoltà, con cui si deve misurare il favorito nell’esercizio delle sue funzioni, sia la precarietà del suo ufficio.

Giova, infine, ricordare che il libro di Saavedra Fajardo sulla Ragion di Stato — come lui stesso si compiaceva di definirlo —‘ ispirato al lucido pragmatismo di Tacito e al neostoicismo del fiammingo Giusto Lipsio, godette ai tempi di straordinaria fortuna: superata con successo la prova del “fumo e dei torchi” (Ex fumo in lucem è il titulus di apertura del Prologo “Al lettore”), fu oggetto di nume­rose ristampe — ben 18 in Spagna nel corso del XVII seco­lo — e di tempestive traduzioni, dapprima in italiano (1648) e poi in latino (1649), in tedesco (1655), in neer­landese (1662) e in francese (1668).

 

Luciana Gentilli

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: G. LEDDA, Contributo allo studio della letteratura emblematica in Spagna (1549-1613), Pisa, Università di Pisa, 1970; J. M. GONZÁLEZ DE ZÁRATE, Saavedra Fajardoy la literatura emblemática, “Traza y Baza’, 10 (1985), numero monografico; F. RODRIGUEZ DE LA FL0R, Emblemas. Lecturas de la imagen simbólica, Madrid, Alianza, 1995; D. SAAVEDRA FAJARDO, Empresas políticas, ed. di Sagrario López, Madrid, Cátedra, 1999.

 

ILLUSTRAZIONI (dal v. 1 dell’opera 30 del catalogo):

11.         P. 1,  impresa 1.

12.         P. 69,  impresa20.

13.         P. 120,  impresa 33.

14.         P. 154,  impresa 43.

15.         P. 180,  impresa 49.

16.         P. 184,  impresa 50.

 

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